ADRIEN PACI, VITE IN TRANSITO

ADRIEN PACI, VITE IN TRANSITO

 

IN BREVE – Pac, Milano – fino al 6 gennaio 2014


Voto:


Pubblico: artisti contemporanei, sperimentatori, perdigiorno 


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Poco materiale mal assortito, privo di un filo conduttore.  


LA MOSTRA

Un titolo suggestivo: “Vite in transito”. Dietro all’opera la vita di un artista che ha raccontato e vissuto le drammatiche trasformazioni politiche e umane cui sono andati incontro i paesi dell’ex blocco sovietico dopo la caduta del muro di Berlino. La vita in transito di milioni di persone e, per estensione, il tema universale del cambiamento, del distacco, della perdita, temi che potevano meritare grande attenzione e curiosità. Potevano. Perché, a seguire la mostra, l’impressione è quella di assistere a un percorso non percorso in un insieme di spunti multimediali affiancati e mal integrati che il curatore definisce, con eccessiva enfasi capaci di “esprimere al meglio la varietà di linguaggi che Adrien Paci utilizza nel suo lavoro (…) tecniche, supporti e materiali che accompagnano la nostra quotidianità in immagini senza tempo, astratte, aperte a una molteplicità di letture metaforiche”. In questa mostra, molto più che in altri casi, si ha l’effetto che provoca molta arte contemporanea: “Potevo farlo anch’io”. Un insight che ha generato libri e trasmissioni sull’arte contemporanea (uno per tutti il volume “Lo potevo fare anch’io”, di Francesco Bonami, Mondadori editore). “Vite in transito” parte con un’enorme bobina di legno, con stampate delle immagini tratte dai film di Pasolini. Continua con minuscole pitture, ispirate nuovamente a tematiche tratte dalla cinematografia italiana, di dubbio gusto autoreferenziale. Di fronte a divanetti l’esposizione prosegue con video e cuffie da subire individualmente, che definiscono da subito le regole di fruizione di questa mostra non mostra: molti video e molto tempo da dedicare per capire il senso di ogni singolo contenuto, criptico e scarsamente fruibile. Vediamo così un’intervista alla figlioletta dell’artista che racconta l’Italia e l’Albania dal suo punto di vista infantile; vediamo una “piangitrice” sul corpo esamine di un uomo, che si rivela essere l’artista che, alla fine della “strabiliante” performance, si alza e se ne va; vediamo poi una piazza di Scicli, in Sicilia, nella quale l’artista incontra il suo pubblico, disposto in un loop circolare, e intento a stringergli la mano; in “Centro di permanenza temporanea” assistiamo a video statici di migranti, accalcati sulle scalette di accesso agli aerei, posizionate in strada senza la presenza degli aerei stessi; in una sala vietata ai minori si mostra la storia di un uomo che vive proiettando film pornografici che poi cancella registrandoci sopra immagini di guerra; infine vediamo un video di 22’ in cui operai cinesi in viaggio su una nave, tra speranza e utopia, scolpiscono una colonna corinzia (esposta al Pac). Metafore, profonde metafore, che possono vivere nella mente dello spettatore come in quella dell’artista ma che non necessitano in alcun modo dei molti poco stimolanti stimoli in mostra.

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